Il lavoro agile nella P.A.: possibili profili di illegittimità costituzionale
Carlo Pisani
Professore ordinario di diritto del lavoro
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
in Guida al Lavoro, Numero 33-34 – 28 agosto 2020
Dal problema dello smart working meno efficiente rispetto al lavoro svolto in ufficio al “simil” lavoro agile; dalla disparità con i lavoratori privati alla violazione del principio di proporzionalità della retribuzione e alla violazione dell’art. 97 Cost.
Il diffuso ricorso al c.d. smart working da parte della Pubblica Amministrazione, dopo la riapertura pressocché totale delle attività economiche private in tutti i settori, e il suo perdurare, a quanto pare anche per il prossimo futuro, deve essere esaminato sotto il profilo della sua eventuale illegittimità per contrasto con gli artt. 3, 36 e 97 Cost.
Il problema dello smart working meno efficiente rispetto al lavoro svolto in ufficio
Il problema si pone in relazione al fenomeno dello smart working inefficiente, cioè alla situazione in cui la prestazione lavorativa del dipendente pubblico effettuata da remoto risulti oggettivamente meno efficiente rispetto a quella invece svolta in ufficio o in sede, con conseguente minor efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa e pregiudizio al suo buon andamento, imposto dall’art. 97 Cost. Ciò può essere dovuto ai più svariati motivi, non necessariamente collegati con la negligenza del lavoratore pubblico; può dipendere, ad esempio, da una copertura della rete insufficiente, da strumenti di lavoro inadeguati o usati promiscuamente dagli altri componenti del nucleo familiare, da una scarsa conoscenza dell’informatica da parte del dipendente, da esigenze di coordinamento che devono essere svolte di persona, dalla mancanza della digitalizzazione dei documenti sui quali si deve lavorare, dalla difficoltà di accedere da remoto agli archivi, ecc. Fare finta che tutto ciò non esista vuol dire ignorare il principio di realtà, che in talune situazioni si è tradotto in un esonero di fatto dalla prestazione lavorativa piuttosto che di un effettivo lavoro a distanza.
Purtroppo il suddetto fenomeno sembra sia molto esteso, a giudicare dalle voci critiche che continuamente appaiono sulla stampa, anche alla luce delle esperienze dirette di ciascuno di noi sullo stato di quasi paralisi di molti uffici pubblici proprio a causa dell’assenza di personale. Sono note, ad esempio, le lamentele dell’associazione dei costruttori in relazione alla mancanza di interfaccia negli uffici urbanistici degli Enti locali, in ragione dell’assenza di personale in loco, che bloccano concessioni e gare di appalto. Ma si moltiplicano anche storie che assumono contorni grotteschi e di commedia, come, ad esempio, le vicissitudini di chi ha dovuto rinnovare la patente oppure quelle riguardanti l’autorizzazione data da alcuni Comuni al lavoro da remoto dei propri vigili urbani; che il fenomeno sia reale e che non si tratti della solita polemica riguardante i “fannulloni della PA”, emerge anche a livello normativo dalla legge di conversione del decreto rilancio, in cui, all’art. 263 su lavoro agile, il legislatore ha avvertito il bisogno di prescrivere, con un certo ritardo, ciò che dovrebbe essere ovvio, e cioè che “le amministrazioni adeguano l’operatività di tutti gli uffici pubblici alle esigenze dei cittadini e delle imprese connesse al graduale riavvio delle attività produttive e commerciali”, limitando a tal fine il ricorso al lavoro agile al 50 per cento delle attività che possono essere svolte in tale modalità. Il che rappresenta una ammissione indiretta del fatto che il massiccio ricorso al lavoro agile, ben al di sopra di tale percentuale, fin ora non ha consentito appunto d’adeguare l’operatività degli uffici pubblici alle esigenze dei cittadini.
In ogni caso qui si intende analizzare il fenomeno sotto il profilo giuslavorista in quanto la sua eventuale illegittimità non dipende dal maggiore o minore tasso di diffusione di esso.