
Le tecniche di tutela nell’età della giurisdizione
Le tecniche di tutela nell’età della giurisdizione
Pubblicato: 21 Febbraio 2023
1. Premessa: le differenti angolazioni da cui analizzare il tema delle tutele.
Il tema della tutela dei diritti del lavoratore si pone come la ratio essendi della nostra materia. Tutta l’evoluzione del diritto del lavoro come diritto speciale è stata storicamente caratterizzata dallo scopo della protezione del lavoratore, identificato come contraente debole e nello stesso tempo come persona implicata nell’attività di prestazione . Il tema delle tutele è dunque molto vasto identificandosi con lo statuto protettivo del diritto del lavoro, per cui una relazione in argomento deve realisticamente orientarsi sulla finalità di inventariare spunti di riflessione per macro-temi.
Le “tutele”, infatti, possono essere esaminate da diverse angolazioni.
Vi è quella dei loro mutamenti, degli eventuali abbassamenti o incrementi, delle linee di tendenza di decrescita o sinusali, del loro andirivieni e delle oscillazioni. Giugni utilizzò il termine “stratificazione alluvionale” per descrivere un fenomeno di sovrapposizione non coordinato di tutele che ha poi continuato a persistere; ciò implica passare in rassegna le varie stagioni del diritto del lavoro, che le tutele stesse hanno caratterizzato, poiché probabilmente sono state le loro modifiche a determinare le varie fasi che ha attraversato la nostra materia, e non viceversa.
Vi è inoltre il punto di vista costituito dalla tipologia trasversale delle tecniche di tutela; questo angolo visuale consente anche di valutare se rimangono attuali le sistemazioni in ordine alle sanzioni operate negli anni settanta e ottanta del secolo scorso quando il diritto del lavoro, e non solo, “scoprì” l’argomento , sulla scorta della valorizzazione del principio dell’effettività delle tutele e del diritto ad un rimedio effettivo; oppure possono essere analizzate per ciascun istituto, soprattutto in relazione a quelli più emblematici, primo fra tutti il licenziamento
Vi è, ancora, l’angolazione delle fonti delle tutele, sovranazionali, nazionali, collettive, di diritto pubblico o privatistiche. Vi è quella che concerne l’ambito delle tutele, se rivolte agli outsiders, e quindi riguardante il mercato del lavoro, gli ammortizzatori, i sussidi, gli incentivi all’occupazione, o se invece agli occupati, relative perciò allo svolgimento del rapporto e alla sua estinzione, pur con le inevitabili connessioni.
In definitiva, si tratta di buona parte del diritto del lavoro. Non potendo trattare di tutto, si impongono purtroppo selezioni tematiche e dolorose esclusioni.
La scelta è di dedicare l’attenzione prevalentemente alle tutele di fonte legale di natura privatistica poste a favore del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro, in quanto le più praticate nelle aule di giustizia, laddove pulsa la “carne viva” dell’effettività delle tutele stesse. É sempre lì che, come diceva Massimo D’Antona, emergono alla fine le differenze tra i “ponti superbi che conducono nel deserto”, i “ponti che crollano perché il progettista è un buon politico ma un cattivo ingegnere” e i “ponti di discutibile fattura su cui tutti però finiscono per passare perché fanno risparmiare strada”. Si tratta della presa d’atto realistica che nel diritto del lavoro, per svariate ragioni, tra cui quella delle norme inderogabili spesso a precetto generico, e per la natura della tutela dei diritti da tutelare, il predicato “giurisdizionale” si accompagna ancora imprescindibilmente all’espressione “tutela”. Ad esempio, vedremo come sia sufficiente che il giudice non ammetta una prova, pur tempestivamente richiesta, affinché una determinata forma di tutela muti nei fatti natura e funzione e si trasformi da risarcitoria in sanzionatoria.
Sono sempre i rimedi concretamente predisposti ed esperibili contro la lesione di un diritto a segnare il limite della sua rilevanza, secondo quell’indissolubile intreccio tra norme sostanziali e norme processuali da cui risulta la complessiva ed unitaria risposta dell’ordinamento all’esigenza di tutela di un determinato interesse.
Davanti all’aula magna della vecchia sede della facoltà di Giurisprudenza della mia Università di Tor Vergata a Roma era riportata questa frase di Caterina II di Russia rivolta a Diderot, che meglio di altro, sintetizza il perenne problema dell’effettività delle tutele: “Signor Diderot ho ascoltato col più grande piacere tutto ciò che il vostro brillante genio vi ha ispirato; ma con tutti i vostri grandi princìpi che io intendo assai bene, si possono fare bei libri, funzionerebbero assai male nella pratica reale. Voi dimenticate, in tutti i vostri progetti di riforma, la differenza esistente tra le nostre due posizioni: voi lavorate soltanto sulla carta, la quale si sottomette a tutto, è del tutto obbediente e docile e non frappone alcun ostacolo, né alla vostra immaginazione né alla vostra penna; mentre io, povera imperatrice, lavoro sulla natura umana, la quale è irritabile e si offende facilmente” .
Pertanto, la relazione si articola in due parti. La prima ripercorre per grandi linee ed in modo sistematico le principali fasi – vissute oltre che studiate – delle tutele e delle loro tecniche, secondo il compito del buon giurista, il quale “è un cercatore d’ordine, un tessitore d’ordine, perché il diritto è essenzialmente scienza ordinante; egli si sforza di individuare e segnare la ragnatela dell’ordine che soggiace, invisibile ma reale, al di sotto della incomposta rissa delle cose” .
Ciò vale soprattutto per il diritto del lavoro, in quanto non è possibile scrutare il suo futuro, tanto più in una stagione di grande confusione e contraddittorietà valoriale e tecnica, senza volgere lo sguardo alla evoluzione normativa che ha caratterizzato la materia e il suo moto pendolare .
L’intento è anche quello di verificare se si è avverata la “profezia” di Giugni del 1982 , secondo cui il precedente sistema di tutele, caratterizzate dal loro continuo incremento, era pensato per un’economia in rapida crescita e quindi destinato a non mantenere lo stesso tasso incrementale, ma anzi a subire inevitabili regressioni, che oggi potremmo definire adeguamenti sul piano normativo.
I giudizi, positivi o negativi su questo andamento delle tutele, che certo statiche non potevano rimanere, costituiscono ovviamente un posterius valutativo di politica del diritto, rispetto al prius rappresentato dal dato sistematico. Poi, a partire da questa ricerca, si possono avanzare considerazioni più generali, come quelle, ad esempio, che ritengono che si sia assistito ad un pericoloso indebolimento dello statuto protettivo del lavoratore o, al contrario, che reputano ineluttabile il suddetto adeguamento in ragione del livello e delle caratteristiche che avevano raggiunto tali tutele, considerata anche la loro applicazione giurisprudenziale e le connessioni del diritto del lavoro con gli scenari macroeconomici che condizionano inevitabilmente le scelte normative, tanto che, opporsi ad essi potrebbe far venire in mente l’apologo del re Canuto, il sovrano inglese che aveva la pretesa di opporsi alle maree e finì annegato.
La seconda parte della relazione è dedicata al quadro sincronico di come si presentano oggi le principali forme e tecniche di tutela, con particolare riferimento alle questioni più problematiche, laddove sono emerse le tensioni e le contraddizioni rilevate su di un piano teorico nella prima parte, e che contraddistinguono quel fenomeno, definito “l’età della giurisdizione”, da alcuni esaltato come espressione di coerenza del diritto con i principi, da altri invece criticato per l’eccesso di soggettivismo giudiziario cui approda, oppure per il carattere intrinsecamente limitato della concezione rimediale del principio di effettività .
Ancor prima è però necessario illustrare le ragioni dell’espressione “l’età della giurisdizione”, utilizzata nel titolo, in quanto i suoi significati sono strettamente connessi con le nuove declinazioni del principio di effettività delle tutele e dei rimedi.
2. Principio di effettività, piano mobile dei rimedi, età della giurisdizione.
La nozione di tutela nel diritto privato si è arricchita da tempo di significati ulteriori rispetto a quelli tradizionali, sotto la spinta della progressiva valorizzazione che si è avuta del principio di effettività e del diritto ad un rimedio effettivo.
È dunque inevitabile che anche nel rapporto di lavoro il tema delle tutele e delle sue tecniche vada preliminarmente inquadrato in questo scenario più ampio, che ha trovato ricadute importanti sul piano giurisprudenziale nella nostra materia, e dalla quale ha ricevuto stimoli non secondari; si pensi, ad esempio, a proposito dei danni punitivi, ai richiami operati dalle Sezioni Unite del 2017 alle fattispecie di provenienza lavoristica, ritenute dalla sentenza caratterizzate da finalità afflittive e deterrenti. Del resto, come sosteneva Mengoni, questo “apporto” del diritto del lavoro all’evoluzione delle categorie civilistiche non è nuovo, al pari dell’ineliminabile supporto che il diritto civile fornisce al diritto del lavoro.
Punto di partenza è la fondamentale distinzione tra interessi o bisogni che si ritiene meritevoli di tutela, ma che ancora non sono stati riconosciuti dall’ordinamento, e quindi non sono stati giuridificati, e quelli invece che hanno ricevuto quella forma di protezione che ha il nome di diritto soggettivo . Secondo la teoria classica, o tradizionale dei rimedi, sono appunto i diritti soggettivi lo strumento di tutela originaria.
Questi diritti, per difforme agire pratico dei consociati, sono suscettibili di essere violati. Per siffatta eventualità il sistema offre dunque strumenti suppletivi di tutela, ossia dispositivi tecnici di realizzazione secondaria aventi appunto come scopo la protezione dell’interesse divenuto diritto insoddisfatto.
Dal momento in cui l’ordinamento riconosce un diritto soggettivo perfetto si apre allora un ventaglio di soluzioni protettive fortemente differenziate tra loro, sicché la scelta del legislatore per l’una o per l’altra segna in modo decisivo il limite di concreta soddisfazione dell’interesse considerato.
Per definire siffatti strumenti è prevalso il temine “rimedi” remedies. Interessante l’etimologia: il termine deriva dal latino remedium, che ha la sua radice in mederi, che significa meditare, riflettere e quindi remedium, ossia curare dopo aver riflettuto.
La svolta a tal proposito si è avuta quando, a partire dagli anni ’70-’80 del secolo scorso, sono cominciate ad emergere le tendenze dirette ad ampliare il riferimento della nozione di tutela anche ad ordini di interessi o bisogni che non hanno ricevuto la veste di diritti , in nome della piena attuazione del principio di effettività delle tutele e del diritto a un rimedio effettivo. Il passaggio decisivo si è avuto nel momento in cui il principio di effettività è stato declinato come un vero e proprio “principio che si fa diritto” ad un “rimedio effettivo”, inteso come correlazione con un diritto, ma anche solo con un bisogno, e la possibilità di una sua piena tutela nel processo attraverso una adeguata gamma di mezzi di attuazione o di realizzazione giurisdizionale .
Su questa scia, valorizzando il principio di effettività, si è dunque fatto strada l’orientamento dottrinale in base al quale il rimedio può anche precedere il diritto o addirittura prescinderci, in quanto reazione in tutti i casi in cui si sia in presenza di un bisogno di tutela rimasto insoddisfatto; bisogno che alluderebbe ad una istanza valoriale sovraordinata e metapositiva. All’attuazione di questi interessi sopperirebbe allora il rimedio, che assumerebbe così forza normativa, non come strumento di realizzazione primario dell’interesse risultato insoddisfatto, ma, ancora prima, come fonte diretta della stessa giuridificazione di siffatto interesse, previo riscontro soltanto della sua ritenuta meritevolezza, secondo l’ordinamento giuridico . Si diffonde dunque l’idea di una sorta di “atipicità” degli strumenti di attuazione, sicché il giudice si sente autorizzato a ricercare o a scegliere, “nelle pieghe dell’ordinamento”, la risposta più adeguata, e cioè il rimedio effettivo, per i bisogni individuali di tutela .
A questa corrente di pensiero si è opposto criticamente il timore di un uso ormai dilagante del termine “rimedio” , che tende a diventare ipertrofico, acritico e forse ideologico . Si è fatto riferimento al riguardo agli eccessi della c.d. ermeneutica dell’effettività . Ad essa, infatti, occorre un demiurgo che non è più il legislatore ma essenzialmente il giudice, sicché questa tecnica “vive del guizzo del magistrato decisore” , il quale, come un novello Diogene, va alla ricerca del rimedio più effettivo che c’è. In sostanza, la ipervalorizzazione o enfatizzazione del principio di effettività come “diritto a un rimedio effettivo”, suscita il timore di una concezione del diritto volta a esaltare la creatività giurisprudenziale come fonte primaria del diritto.
Tutto ciò va inquadrato in una tendenza ancora più generale definita, con efficace espressione riassuntiva, come l’“età della giurisdizione” , per indicare il primato esponenziale che si è riconosciuto alla giurisprudenza , che avrebbe assunto una funzione sempre più centrale, a tutti i livelli, in ragione di una magistratura, non solo pienamente consapevole del proprio ruolo creativo nell’applicazione del diritto, ma anche convinta di dover assumere un ruolo di protagonista nell’ambito politico; da ultimo è significativo lo sciopero indetto dell’associazione nazionale dei magistrati contro la riforma del CSM nei confronti dei nuovi criteri di valutazione, nel timore di una “mortificazione della vitalità dell’interpretazione della norma”. È altresì significativo che nella relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2015, il primo Presidente della Corte Suprema della Cassazione esprimeva il timore di una “deriva della giurisdizione verso l’instabilità del diritto liquido” .
Si tratta in sostanza dell’epocale passaggio dal “monismo legalistico al pluralismo giuridico” , che affonda le radici nello spostamento dell’asse portante dell’ordine giuridico dal primato della legge al primato dei principi, quali fonti del nuovo diritto privato .
Vi è dunque la necessità di un interprete creativo, che può essere la Corte costituzionale, ma anche il giudice ordinario, a cui spetta il “compito salvifico” di produrre il diritto: a lui è dato fare ciò che la legge non è più in grado, ossia “leggere e decifrare valori diffusamente condivisi” meglio dei governanti, sullo sfondo della crisi che investe un legislatore “troppo spesso modestissimo” , nonché la formazione della classe dirigente nelle democrazie occidentali e in Italia in particolare. È quindi il segno fondamentale dell’antipolitica che si presenta con il volto rassicurante dei giudici .
Naturalmente una simile impostazione ha suscitato obiezioni prevalentemente basate sul timore che, in tal modo, vi può essere il rischio di rendere la funzione giurisdizionale strumento di attuazione delle idee e convinzioni personali che ogni singolo giudice può essere indotto a trasferire nelle decisioni e, quindi, in definitiva, strumento di potere per chi amministra il riconoscimento di ciò che è ragionevole e di ciò che non lo è. A ciò si aggiunge la critica che pone l’accento sulla difficoltà di costruire la razionalità del sistema su questo terreno ritenuto “erratico e franoso” .
Tra le tecniche maggiormente praticate per attuare principi e valori vi è quella dell’uso, o abuso, a seconda dei punti di vista, dell’interpretazione costituzionalmente orientata. Infatti, anche il giudice, e non solo la Corte costituzionale, si sente facoltizzato a proporre bilanciamenti problematici quando i principi fondamentali vengono in conflitto, risolvendo il caso in maniera conforme al principio così bilanciato, ancorché possa essere dissonante rispetto alla lettera della norma legislativa , onde poter in tal modo dispiegare compiutamente la sua personale Drittwirkung, imponendo così l’affermazione immediata e automatica di suoi “assoluti e grandeggianti valori” . Di qui la preoccupazione che alcuni eccessi nell’uso dell’interpretazione conforme a Costituzione siano dovuti o possono condurre a un soggettivismo giudiziario avulso dalla mediazione praticata dal legislatore .
Il fenomeno del soggettivismo e creazionismo giudiziario è da sempre un tema delicato e insidioso nella nostra materia, per la sua valenza anche divisiva, poiché, da una parte della dottrina esso è ritenuto salvifico per il suo ruolo primario nella gerarchia assiologica del sistema giuslavoristico , soprattutto da chi ha visto nelle riforme dei primi quindici anni del secolo l’appannamento, se non la vera e propria crisi, dei diritti fondamentali del lavoratore; da altra parte, invece, viene da sempre guardato con forti perplessità per la tendenza ad essere declinato in chiave politico-ideologica .
Già negli anni ‘80, ammoniva Gino Giugni che questa accentuata discrezionalità giudiziaria fosse un elemento “patologico ed anomalo”, augurandosi un suo superamento .
Il problema, che ovviamente esiste, dei diritti senza adeguata azione non può essere risolto con le azioni senza diritto. Concepire la tutela giurisdizionale come prius rispetto alla regola sostanziale, poi rintracciabile in qualche modo tra le pieghe del sistema, presuppone che diventi indifferente se affidare alla sovranità popolare, per mezzo del Parlamento, o al giudice, la scelta dell’interesse prevalente. Mentre, se un interesse non è protetto oppure è poco protetto dalla legge, l’interprete non può far prevalere la sua soggettiva disapprovazione nei confronti di questa, da lui ritenuta ingiusta, sottovalutazione da parte del legislatore, e quindi, accingersi a “fare da sé”, per affermare una regola nuova.
Il rischio di quella che è stata definita una sorta di deriva pangiurisdizionalista è che essa renda l’ordinamento giuridico non in grado di garantire, in misura sufficiente, certezza del diritto, prevedibilità degli esiti dei processi e applicazione uniforme delle regole tra i consociati, e che quindi diventi, non solo inefficiente sul piano economico, ma anche non più “giusto” , in quanto gli approdi interpretativi contraddittori possono determinare situazioni ingiustamente diseguali a parità di condizioni. Questo aspetto risulta evidente nei casi in cui proprio la discrezionalità del giudice, invocata per assicurare il rispetto del principio di uguaglianza, può portare invece a violazioni di quel principio, tutte le volte in cui una medesima norma viene applicata in modo differente ad un medesimo caso in ragione, appunto, dell’accentuato soggettivismo della decisione.
Così potrà accadere, ad esempio, dopo la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale , la quale ha volutamente dato la stura ad un soggettivismo giudiziario eccessivamente incentrato sul caso concreto, fino a comprendere condizioni per la determinazione dell’indennità che talvolta sono ignote alle parti stesse del processo , come è accaduto in quel caso in cui il Tribunale ha determinato l’indennità considerando anche le spese di trasloco che aveva sostenuto il lavoratore .
Non si tratta di essere affetti dalla nostalgia per la certezza del diritto quale valore etico e trascendente la continuità dell’ordinamento positivo, bensì – come concludeva Ghera nel suo ancora attuale saggio del 1979 sulle sanzioni civili nella tutela del lavoratore – di ravvisare nella certezza un canone di interpretazione idoneo a garantire la uguaglianza dei cittadini che si rivolgono alla giustizia . In conclusione, anche in un mondo investito da un ritmo di cambiamenti sempre più veloci , ci si è chiesti quale sia la soglia tollerabile dell’incertezza del diritto, “quale sia cioè il confine che non deve essere valicato per non trasformare un ordinamento in una montagna di carta inutile e un processo in una lotteria forense” .
3. L’inizio della nuova “era geologica” del diritto del lavoro: il lento superamento del “modello unico anni Settanta”.
Per capire meglio quello che, in tema di tecniche di tutela, sta accadendo ora e ciò che è successo nel passato prossimo, occorre risalire alla genesi, al passato remoto.
La nostra genesi può essere individuata nella famosa relazione al convegno AIDLASS di Bari del 1982 di Gino Giugni, in cui richiamava un punto di partenza ancor più remoto, in quanto così esordiva : “Nell’ormai lungo periodo che ci separa dalla soppressione dell’ordinamento corporativo…”. Erano trascorsi circa quarant’anni.
Si potrebbe anche ora iniziare dicendo, “nell’ormai lungo periodo che ci separa”, questa volta però dal momento in cui il diritto del lavoro ha conosciuto il suo culmine protettivo in termini di tutele del lavoratore, il suo apogeo, raggiunto con lo Statuto dei lavoratori e il processo del lavoro del 1973; da allora è trascorso un periodo ancora più lungo, quasi cinquanta anni.
Sempre Giugni poteva affermare che il diritto del lavoro allora era riuscito a realizzare risultati di grande rilievo “in estensione e in profondità”, in tema non solo di diritti sindacali, ma anche di “tutela dei diritti dei lavoratori”.
Ma già allora Giugni intuiva i prodromi di “accelerati cambiamenti” e aveva capito che quel sistema di garanzie “tra i più avanzati”, avesse “toccato il livello di guardia oltre il quale non è possibile procedere” , in quanto pensato per una economia in rapida crescita come presupposto indefettibile per tali tutele.
Questo apogeo delle tutele in realtà era caratterizzato essenzialmente, oltre che dalla tecnica della norma inderogabile, anche dalla uniformità, in “estensione e profondità”, sovente accompagnata dall’altra connotazione di essere imposta da norme fondamentali a precetto generico. Un simile mix di tecniche era funzionale, come scriveva Giugni, “per garantire il massimo della protezione al lavoratore, all’esaltazione dell’ideale giuridico del rapporto di lavoro inteso come rapporto stabile e a tempo pieno .In quella famosa relazione di Giugni c’era anche un’altra intuizione sistematica fondamentale che riguarda ancora più da vicino il tema delle tecniche di tutela. Quel sistema, non solo non poteva crescere ancora in misura esponenziale, ma avrebbe dovuto evolversi in modo differente, perché era segnato da un vizio d’origine consistente nella formazione alluvionale della normativa che determinava “una serie di antinomie o lacune di collisioni” , che si traduceva in una irrazionale stratificazione di tutele.
Come vedremo, il processo evolutivo del diritto del lavoro non si è mai del tutto sbarazzato di quel vizio di origine denunziato da Giugni tanto da essere considerato un “vizio endemico del sistema lavoristico” .
Giugni comunque non esercitava doti divinatorie ma analizzava attentamente i fatti di cui aveva colto le prime avvisaglie. Come scrisse Mengoni: “La festa dello Statuto fu guastata dallo shock petrolifero nel 1973” . La crisi pose fine allo sviluppo economico che aveva caratterizzato l’Occidente negli anni Cinquanta e Sessanta.
Il legislatore fu indotto ad intervenire a partire dal 1977 con una serie di provvedimenti in controtendenza rispetto alla politica legislativa degli anni precedenti.
Ma, soprattutto, fu costretto a frenare il costo del lavoro; per la prima volta nella storia del secondo dopo guerra fu applicata la tecnica della norma inderogabile all’autonomia collettiva in funzione di limite massimo della dinamica salariale. Quella fu vissuta come una “svolta epocale”. In sintesi, finiva l’epoca della retribuzione come variabile indipendente e il sostanziale accantonamento dei problemi di compatibilità economica delle tutele, in termini di inflazione, disoccupazione e debito pubblico.
Era nato il diritto del lavoro dell’emergenza ; ma all’inizio degli anni Ottanta fu chiaro che si sarebbe passati dal diritto dell’emergenza a quello della crisi, a fronte dei tumultuosi mutamenti nel mondo del lavoro e negli scenari economici internazionali.
Infatti, sono stati cinquanta anni ad alta intensità per il mondo del lavoro e non solo; basti pensare che essi sono stati attraversati da ben due rivoluzioni industriali, la terza e la quarta, quando invece le prime due furono distribuite lungo almeno due secoli. Uno dei tratti distintivi di questo lungo periodo, per quel che qui interessa, si può quindi ritenere quello dell’accelerazione , tecnologica innanzitutto, che ha portato a compimento i tratti salienti della post-modernità.
È importante sottolineare che, al cospetto di un mondo del lavoro che cambiava in continuazione, il processo di adeguamento così avviato delle tecniche di tutela – secondo alcuni di regressione, secondo altri di allentamento delle uniformità più o meno inique o oppressive, si connotava però per la sua lentezza e i suoi ritardi.
Un esempio emblematico del tendenziale immobilismo che ha caratterizzato la materia per lungo tempo e della risposta fortemente conservativa dell’ordinamento e della cultura giuslavoristica , può essere visto in riferimento a due norme dello Statuto dei lavoratori tra le più esposte ai mutamenti indotti dall’innovazione tecnologica, e cioè gli artt. 4 e 13. Nel Convegno AIDLASS di Napoli del 1985, di ben trentasette anni fa, intitolato “Rivoluzione tecnologia e diritto del lavoro”, la relazione di Carinci e altri autorevoli interventi , mettevano in evidenza che già allora, tra le norme in evidente sofferenza dello Statuto, vi erano quelle che regolavano il controllo a distanza tramite apparecchiature e il mutamento delle mansioni, da cui emergeva evidentissimo, già allora, il ritardo di tali tecniche di tutela nei confronti dell’informatica che stava irrompendo nel mondo del lavoro. Ebbene dovevano passare da allora ben trent’anni prima che quelle due norme venissero riformate e ne venisse superata la rigida uniformità della disciplina di tutela.
Mentre, ad esempio, in Germania sin dal 2003, venivano inserite gradualmente dosi di flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro, da noi, ancora a cavallo del nuovo secolo, le istanze di flessibilizzazione trovavano sbocco solo in direzione dello sviluppo di tipologie atipiche, con la c.d. legge Biagi, il D.L.vo n. 276/2003, ma certo non per quanto atteneva ai vari profili di disciplina del rapporto di lavoro, che restavano sostanzialmente intatti .
4. Le tecniche del progressivo parziale allentamento della inderogabilità uniforme: la devoluzione all’autonomia collettiva, l’autonomia negoziale assistita e la derogabilità individuale nelle sedi protette.
Nell’arco di tempo che va dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso al 2012, uno dei principali percorsi che può essere seguito nella ricostruzione delle tecniche di tutela nel diritto del lavoro, è il ruolo giocato dal rapporto tra le fonti, innanzitutto quello tra legge e autonomia collettiva . Per il resto, al di là della riforma del rapporto del pubblico impiego, si è proceduto all’ordinaria manutenzione del sistema, modificando qua e là qualche tecnica di tutela.
Infatti, la nota dominante è probabilmente da ravvisare nella valorizzazione dell’autonomia collettiva in funzione flessibilizzante della disciplina del rapporto e della riduzione dello spazio della norma inderogabile uniforme e delle sue rigidità e automatismi , secondo quella che veniva variamente denominata la tecnica della flessibilità concordata o del garantismo flessibile, nella misura in cui si spostavano le tutele e le garanzie “dal piano rigido della legge, al piano mobile di una contrattazione collettiva dinamica” .
Si è trattato di una tendenza progettuale destinata a diventarne poi una caratteristica strutturale tanto che ora sembra un dato del tutto acquisito e fisiologico che in molte materie sia la legge stessa a prevedere che la sua disciplina possa essere completata, derogata o sostituita, da regole elaborate dalle parti sociali .
Basti ricordare, a mero titolo esemplificativo, oltre gli interventi sul contratto a termine; la L. 12 giugno 1990, n. 146, sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e la L. 23 luglio 1991, n. 223, sui licenziamenti collettivi.
È importante sottolineare telegraficamente alcune ben note caratteristiche dell’evoluzione di queste tecniche.
a I rinvii dalla legge al contratto collettivo non andavano a scalfire gli aspetti che incidevano maggiormente sul quantum di flessibilità del rapporto, come, ad es., la giusta causa o il giustificato motivo, o l’equivalenza per la mobilità orizzontale.
b La loro varietà; esse, infatti, potevano e possono essere in funzione di integrazione o di deroga rispetto alla disciplina legale, o addirittura di sostituzione a quella di default dettata dalla legge, in cui il contratto collettivo non è più chiamato a flessibilizzare la disciplina inderogabile attenuandone la rigidità, quanto piuttosto a definire esso stesso la disciplina inderogabile destinata a regolare l’istituto in luogo di quella legale .
c Mediante queste tecniche di devoluzione al contratto collettivo, però, i rapporti tra fonte legale e fonte contrattuale si allontanavano man mano dai fasti del passato nei quali vi era una rincorsa reciproca all’accrescimento dei contenuti garantistici a vantaggio della parte debole del rapporto di lavoro .
d Uno dei principali punti di arrivo della suddetta tendenza, forse più simbolico che di impatto pratico applicativo, può essere considerata l’introduzione dei c.d. accordi di prossimità, dell’art. 8, L. 14 settembre 2011, n. 148, in cui viene assegnato, neanche più al contratto collettivo nazionale, ma a quello aziendale e territoriale, il potere normativo di modificare in pejus una amplissima area di disposizioni di legge altrimenti inderogabili, purché nel limite, tautologicamente posto, del rispetto della Costituzione e delle convenzioni internazionali; ma rimane emblematica la tecnica normativa intesa a ridurre non solo l’inderogabilità della norma legale, ma anche l’uniformità dei rapporti tra i contratti collettivi di diverso livello, con alterazione del tradizionale assetto delle fonti.
La medesima tecnica di “scardinamento” della tradizionale e uniforme gerarchia tra contratti collettivi di diverso livello è proseguita ad opera dell’art. 51, D.L.vo n. 81/2015, che pone sullo stesso piano il contratto collettivo decentrato rispetto a quello nazionale nella definizione di medesime funzioni e competenze tradizionalmente riservate al secondo .
L’allentamento della norma inderogabile, si è verificato anche a livello individuale, sempre in sede assistita.
Già agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso una delle prime voci critiche e, all’epoca, in controtendenza, in ordine all’uniforme oppressiva tecnica dell’inderogabilità, fu quella di Massimo D’Antona, il quale coglieva l’esigenza, allora insoddisfatta, di lasciare uno spazio, sempre controllato e assistito, alla protezione degli interessi, dei bisogni e dei progetti di vita, del “lavoratore in carne e ossa”, per consentire, ad esempio, al tornitore di non fare il tornitore per tutta la vita .
Anche questo passaggio, dalla mera fase di diposizione dei diritti già maturati, ad una limitata fase di costruzione ex ante di una disciplina specifica adeguata al singolo rapporto, con alcune possibilità di deroga, è stato però per lungo tempo lento, per poi subire una accelerazione, ma sempre in ambiti circoscritti.
Infatti, le proposte che erano contenute nel libro bianco del 2001, in relazione al modello della volontà o della derogabilità assistita, venivano bocciate dalle resistenze sindacali. Anzi, con il D.L.vo n. 276/2003 si pensava di risolvere i ritardi in tal senso con la proliferazione dei sottotipi contrattuali, sbandierati come strumenti di flessibilità, che invece accrescevano ancora di più l’incertezza e il contenzioso giudiziario. Proprio in questa situazione di incertezza culminante, il legislatore prendeva atto della sua insostenibilità, introducendo il nuovo istituto della Certificazione , al dichiarato fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro art. 75, comma 1, D.L.vo n. 276/2003, come novellato dall’art. 30, comma 4, L. 4 novembre 2010, n. 183. Senonché tale l’istituto si è rivelato di limitata utilità, poiché non consente alcuna deroga alla normativa legale e collettiva, neppure con l’assistenza di un soggetto imparziale.
Successivamente, è progressivamente aumentato, soprattutto nella stagione del Jobs Act, il numero delle disposizioni che hanno aperto spazi alla vera e propria possibilità di deroga alle norme inderogabili legali e collettive a livello individuale. I tratti comuni di queste disposizioni, anch’essi ben noti, consistono nella tecnica di abilitare la volontà individuale a dettare una regola difforme da quella altrimenti imposta dalla legge, sempre però entro limiti inderogabili predeterminati o a condizioni fissate dalla legge, e purché in presenza di soggetti qualificati, il cui compito è quello di assistere la parte debole del rapporto nella comprensione del significato e degli effetti della volontà manifestata, ma anche nella c.d. “convenienza” dell’affare, analogamente a quanto accade per gli atti di disposizione di diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore ai sensi dell’art. 2113 cod. civ.
Tra le norme invece più significative di effettiva derogabilità assistita si può ricordare l’art. 2103, comma 6, c.c., per la sua incidenza, per la prima volta, su aspetti fondamentali della disciplina del rapporto di lavoro quali mansioni, inquadramento e retribuzione. In effetti, è l’art. 2103 c.c., nel suo complesso, che contiene un autentico repertorio di tecniche in relazione al rapporto tra le fonti, a cominciare da quella del primo comma di rinvio al contratto collettivo, mediante l’utilizzazione di un istituto di quest’ultimo, vale a dire il sistema di inquadramento, per riconnettervi un effetto, e cioè uno dei due limiti al mutamento delle mansioni, l’altro rimanendo quello della categoria legale stabilito direttamente dalla legge .
Ma è nel comma 6 che è prevista la tecnica della vera e propria derogabilità assistita nelle sedi protette, per modificare in pejus mansioni, inquadramento e retribuzione, abilitando l’autonomia privata a derogare alla regola generale di cui al comma 1, ma anche alle eccezioni di cui ai commi 2 e 4. Infatti, il lavoratore può pattuire di essere adibito a mansioni inferiori, senza limiti di livelli e categorie, con la corrispondente retribuzione inferiore. Qui si rinvengono i tratti tipici di questa tecnica derogatoria, che consistono, oltre nell’ovvia sede protetta-assistita di cui all’art. 2113 c.c., anche nell’imposizione di precise limitazioni e/o condizioni inderogabili di ammissibilità, individuate dal legislatore in tre possibili causali che concernono le ragioni della convenienza del patto per il lavoratore, tassativamente predeterminate dalla norma e consistenti in altrettanti suoi “interessi”, e cioè la salvaguardia dell’occupazione, oppure l’acquisizione di una diversa professionalità, oppure il miglioramento delle condizioni di vita.
È interessante notare come, dal punto di vista delle tecniche, la riforma dell’art. 2103 c.c. presenta un tratto comune con quella dell’art. 18: entrambe le norme, infatti, rompono la rigida uniformità regolativa inderogabile delle precedenti discipline, da taluni ritenute inique e oppressive, da altri invece garantiste. In relazione all’art. 2103 c.c., prima, in quell’unico primo comma, la mobilità orizzontale veniva disciplinata, o meglio, limitata, da una sola norma inderogabile, uniforme e a precetto generico, l’equivalenza; nella nuova versione invece la stessa vicenda della modificazione delle mansioni è articolata in quattro fattispecie. Analogamente, in relazione all’art. 18, dove prima era prevista una sola uniforme fattispecie sanzionatoria massima per tutte le svariate ipotesi di illegittimità del licenziamento, nella nuova disciplina le tutele vengono invece graduate mediante quattro regimi differenti che si applicano a seconda di una variegata tipologia di vizi del licenziamento.
Infine, merita segnalare che nella legge delega di riforma del processo civile L. 26 novembre 2021, n. 206, l’art.1, comma 4, lett. q, stabilisce che venga introdotta la negoziazione assistita anche in materia di lavoro, senza che ciò costituisca condizione di procedibilità dell’azione. Si potrà ricorrere a questa sede a condizione che ciascuna parte sia assistita dal proprio avvocato, nonché, ove le parti stesse lo ritengano, anche dai rispettivi consulenti del lavoro. La novità è che al relativo accordo è assicurato il regime di stabilità protetta di cui all’art. 2113 c.c. Al riguardo è inutile riaprire una polemica annosa riguardante il motivo per cui il legislatore non abbia fino ad ora mai voluto conferire gli effetti di cui all’art. 2113 c.c., alle rinunzie e transazioni stipulate dal lavoratore con la “sola” assistenza del suo avvocato di fiducia, che invece sarebbe la figura più idonea a valutare la convenienza dell’accordo per il suo assistito.
In relazione al processo così sinteticamente descritto di riduzione della normativa inderogabile, non è condivisibile evocare “crisi” o “tramonti”, o addirittura “decessi” dell’inderogabilità . Quello che è stato realizzato, infatti, è un allentamento moderato e controllato di quella “porzione” di inderogabilità che aveva determinato una “onnipervasiva intangibilità delle discipline di tutela” ; anche a livello individuale, il “modello unico anni settanta” di inderogabilità generalizzata aveva generato eccessiva uniformità, da taluni ritenuta oppressiva, che risultava abbastanza anacronistica, in quanto gran parte dei lavoratori ormai è in grado di procurarsi un’efficace assistenza per adeguare il contratto individuale, in particolari condizioni, alle loro specifiche esigenze concrete, così come è sempre avvenuto in relazione ai negozi abdicativi. Non è dunque condivisibile l’idea che si sia realizzata “una società in cui gli individui sono divenuti liberi di negoziare le proprie condizioni di lavoro” , per la semplice ragione che, se ciò accedesse, il diritto del lavoro negherebbe sé stesso. A pieno titolo, quindi, l’inderogabilità può essere considerata ancora la tecnica “presupposto” per l’effettività delle tutele del lavoratore , ovviamente non esaustiva.
Ad essa si accompagna infatti la tecnica della nullità, o, più raramente, dell’annullabilità, che impongono non un obbligo ma un limite all’attività dei poteri privati, con la conseguenza che l’inosservanza della norma sarà l’invalidità dell’atto e non la previsione o la repressione, mediante l’impostazione di un obbligo secondario a carico del responsabile dell’illecito ; di qui la differenza con le sanzioni in senso proprio.
L’inderogabilità è anche il presupposto dell’altra caratteristica fondamentale costituita dalla tecnica della sostituzione legale automatica del regolamento imposto dalla fonte superiore, legislativa e collettiva, a quella concretamente voluta dalle parti, in base all’altrettanto fondamentale principio della nullità parziale fissato dal comma 2 dell’art.1419 c.c.
Questa tecnica non è ovviamente “indolore” per la certezza del diritto, specialmente in tutte le situazioni in cui la correzione dell’originario regolamento negoziale viene effettuata dall’accertamento giudiziale a distanza di tempo, anche a seguito di esiti contrastanti nei vari gradi di giudizio. La storia della nostra materia è piena di simili delicati, quanto costosi, problemi interpretativi e di come le correzioni possano operare retroattivamente nel tempo in un rapporto di durata ; problemi che alle volte hanno costretto il legislatore ad intervenire in via correttiva, come nel contratto a tempo determinato. La casistica è ampia e nota: si va da quelle relativa all’apposizione del termine illegittimo, o quelle in cui la nullità si abbatte nelle fattispecie di dissociazione tra datore di lavoro formale e l’utilizzatore, come nella ipotesi dell’appalto illegittimo, oppure allorquando l’effetto demolitorio riguarda il presupposto della sostituzione di un datore ad un altro, come nel caso del trasferimento illegittimo di ramo d’azienda.
5. L’improvvisa accelerazione e la madre di tutte le riforme: la modificazione dell’art. 18 statutario.
Sotto l’incalzare della crisi finanziaria, iniziata nel 2008, e delle spinte dell’Unione Europea, non poteva più continuare il tendenziale conservatorismo riguardante il sistema delle tutele nei confronti del potere di licenziamento, che aveva resistito a tutte le stagioni dell’emergenza e della crisi del diritto del lavoro e a ben due rivoluzioni industriali. L’art. 18 Stat. lav. rimaneva quindi “la madre di tutte le riforme”, considerato l’alto valore simbolico e politico che la norma aveva assunto e tenuto conto che nel licenziamento, dopo tutto, è da ravvisare il massimo potenziale di dominio dell’imprenditore sull’organizzazione del lavoro; ragion per cui è importante contestualizzare tale fondamentale riforma per evitare giudizi eccessivamente astratti.
Nel 2009 l’economia italiana subiva una delle peggiori recessioni della sua storia, allorquando il PIL segnava una contrazione del 5%. L’allora governo Berlusconi arrancava, e non avendo la forza politica di modificare l’art. 18, si limitava ad eliminare una delle non secondarie storture del sistema della reintegrazione a risarcimento illimitato, e cioè la possibilità per il lavoratore, dopo l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, di attendere fino a cinque anni per introdurre la causa termine di prescrizione dell’azione di annullamento, e anche oltre, se il licenziamento era nullo; tutto ciò al fine di lucrare il più possibile sul sistema del risarcimento parametrato alle retribuzioni perdute, che si andava a sommare a quello che si accumulava a causa dei lunghi tempi del processo, soprattutto se il lavoratore risultava vittorioso solo nei successivi gradi di giudizio, potendosi arrivare a risarcimenti di oltre dieci anni di retribuzione, se il licenziamento veniva annullato in sede di giudizio di rinvio dalla Cassazione. Il fenomeno era aggravato da un discutibile orientamento giurisprudenziale che, come vedremo, tendeva a svalutare la rilevanza di questa inerzia del lavoratore ai fini della prova presuntiva della aliunde perceptum o percipiendum. Veniva così introdotto, con l’art. 32 della legge n. 183/2010, il termine di decadenza giudiziale, che impone al lavoratore di introdurre la causa di impugnativa del licenziamento entro 180 giorni . Risultano poco comprensibili le critiche mosse a tale norma, giacché qui si tratta, non solo di evitare il fenomeno distorsivo sopra citato, ma inoltre di un ragionevole bilanciamento con la necessità della certezza del diritto e la lealtà dei rapporti giuridici .
La crisi precipitava nel 2011, quando la speculazione internazionale metteva nel mirino i debiti sovrani di Italia e Grecia; anche l’euro rischiava di crollare salvato a un soffio dal dramma dal “Whatever it takes” di Draghi, nel frattempo passato alla BCE. Le ripercussioni internazionali della crisi erano molto più forti in Italia perché rispetto agli altri partners europei soffriva di gravi debolezze strutturali; per quanto riguarda più specificamente il mondo del lavoro, basti ricordare il dato impietoso della produttività 2000-2016, in cui l’Italia era scresciuta solo del +0,4% rispetto al 15% di Francia, Spagna e Regno Unito, al 18% della Germania, al 25,5% degli USA fonte OISE. Sopraggiungeva, così, la famosa lettera che il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet indirizzavano al Governo italiano, in cui venivano indicate una serie di misure necessarie per ristabilire la fiducia degli investitori, tra le quali “l’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti stabilendo un sistema di assicurazione della disoccupazione”.
Si trattava del secondo brusco risveglio per la nostra materia, dopo quello del 1973. Il legislatore, nel fare quelli che erano stati definiti spregiativamente dai sovranisti “i compiti a casa”, optava per non riformare anche o solo le causali del licenziamento, che pure risalivano a oltre quarantacinque e settanta anni prima, rinunciando ad introdurre qualche certezza in più, ad esempio a proposito del repêchage nel giustificato motivo oggettivo, quanto meno in ordine al periodo temporale e all’ampiezza della mansioni da prendere in considerazione per la prova della inesistenza di posizioni libere; oppure mediante la tipizzazione legale di alcune ipotesi di giusta causa su alcuni aspetti maggiormente controversi in giurisprudenza.
La tecnica della riforma dell’art. 18 è nota; la sua peculiarità risiede nell’aver posto fine all’uniformità sanzionatoria che caratterizzava il precedente regime, che vincolava il giudice, senza nessuna discrezionalità, ad applicare sempre la medesima massima sanzione, e che quindi equiparava iniquamente, e forse incostituzionalmente, situazioni tra loro anche molto differenti, come il più odioso dei licenziamenti discriminatori, con quello sostanzialmente giustificato magari da un reato gravissimo del dipendente, ma illegittimo per un banale vizio procedimentale, senza possibilità di graduare tali conseguenze a seconda della gravità dell’illegittimità .
Peraltro, il mito della reintegrazione generalizzata era già entrato in crisi da tempo e resisteva più che altro perché era diventata una battaglia politica contingente contro i governi di centro destra. Infatti, come è stato realisticamente affermato, “era noto che la tutela reale, non esistendo allo stato adeguati efficaci strumenti di coercizione dell’ordine di reintegrazione non è realizzabile” , ed infatti non si realizzava quasi mai, degradando, nei fatti, a tutela obbligatoria, anzi, iper obbligatoria , in quanto la coercizione indiretta costituita dai notevoli oneri di un’obbligazione retributiva che non si estingueva con il licenziamento illegittimo, nella prassi del contenzioso aveva soltanto favorito transazioni economicamente molto vantaggiose per il lavoratore.
Anche il legislatore aveva mostrato in qualche modo di arrendersi a questo stato di fatto, allorquando decise, con la L. n. 108/90, di monetizzare la reintegrazione, introducendo l’indennità sostitutiva. Finiva così definitivamente l’idea che la reintegra fosse indissolubilmente connessa con la dignità della persona, come puntualizzato ripetutamente dalla Corte costituzionale, che non ha mai ritenuto l’art. 18 a contenuto costituzionalmente obbligato .
Tre anni dopo veniva attuato il Jobs Act che, tra l’altro, portava a compimento la riforma del regime sanzionatorio del licenziamento.
Ferma rimanendo la reintegrazione totale vecchia maniera per i licenziamenti c.d. odiosi, cioè discriminatori, ritorsivi, in maternità, ecc., e per quelli orali, su alcuni aspetti il legislatore ha tentato di porre fine ad alcune interpretazioni abrogatrici dell’art. 18, comma 5, inserendo nell’art. 3, comma 2, una previsione per chi non voleva capire, e cioè che all’insussistenza del fatto materiale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento; poi il legislatore ha esagerato aggiungendo la parola “materiale” all’insussistenza del fatto e qui stavolta la giurisprudenza ha condivisibilmente ignorato una simile aggiunta equiparando l’insussistenza del fatto al fatto lecito, fermo restando l’estraneità della valutazione sulla sproporzione .
Inoltre, è stato realizzato quello che aveva tentato ma non era riuscito a fare il precedente Governo, e cioè l’abolizione completa della reintegrazione per il licenziamento per motivi oggettivi, a meno che non intervenga anche qui la Corte costituzionale, sviluppando e portando a compimento l’impostazione sulla quale ha basato le sentenze 1° aprile 2021, n. 59 e 19 maggio 2022, n. 125, con i problemi che vedremo nel par. 7.
Altra soppressione rilevante è stata quella della seconda causale della reintegrazione prevista dall’art. 18, comma 4, riguardante il licenziamento basato su previsione collettiva di sanzione conservativa, quasi presagendo le attuali prese di posizione di una parte della giurisprudenza, che vedremo.
Ma la blindatura del regime sanzionatorio si è avuta con l’introduzione del criterio di determinazione ex ante dell’indennità a c.d. “tutele crescenti” calcolato sulla sola anzianità del lavoratore.
Questo criterio era stato introdotto non surrettiziamente, come alle volte è avvenuto con i legislatori “piccoli ma scaltri”, ma in osservanza della volontà parlamentare che si era espressa nella legge delega, che obbligava il Governo ad adottare un decreto legislativo nel rispetto – tra gli altri – di un preciso criterio direttivo in caso di licenziamento ingiustificato, consistente nella previsione di un “indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio”. Una simile scelta era basata su di una precisa finalità, anch’essa rinvenibile nella volontà parlamentare espressa nella legge delega, individuata nello “scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”. La finalità era, dunque, quella di combattere la disoccupazione, in quanto a novembre 2014, i senza lavoro avevano toccato un nuovo picco arrivando a 3,4 milioni, con un tasso di disoccupazione del 13,4%, con il 43,9% tra i giovani; questi dati ponevano l’Italia ben al di sotto della media europea, che si aggirava intorno all’11% e alla Germania che stava al 6,5%.
Alla luce della suddetta contestualizzazione, emerge prepotentemente l’opzione di fondo, al di là di tutte le più o meno sottili questioni interpretative: si può, e anzi si deve, discutere a livello scientifico, se un indennizzo economico certo contro il licenziamento illegittimo sia efficace o no al fine di aumentare la propensione delle imprese ad assumere, oltre che ad attrarre investitori esteri; quello che si può discutere meno, forse, è che questa scelta sia di esclusiva competenza della discrezionalità legislativa . Invadere questo campo, come pure vedremo, è una manifestazione fenomenologica tipica della c.d. “età della giurisdizione”. Oltretutto, questa scelta è stata riconosciuta costituzionalmente ragionevole perfino dalla quella stessa sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, quando si è trattato di rigettare la questione sulla disparità di trattamento con i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, motivando proprio in base alla ragione giustificatrice “costituita dallo scopo dichiaratamente perseguito dal legislatore, appunto di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro per chi di un lavoro fosse privo” punto 6 della motivazione. Ragione, questa, che però poi non è stata presa in considerazione, neppure per confutarla, nell’ altra parte della medesima sentenza che ha bocciato il meccanismo delle tutele crescenti.
6. La stagione delle controtendenze: a) la legislazione
Il carattere fortemente innovativo del Jobs Act, ma anche della L. n. 92/2012 ha però provocato a sua volta una reazione difensiva e avversativa volta a disinnescare il potenziale riformistico, poiché tali riforme impattavano sulle abitudini culturali e ideologiche di ampia parte della giurisprudenza e della dottrina del diritto del lavoro. Ed infatti, non sono mancate accuse di neoliberismo, di profonda portata destrutturatrice, di piano inclinato delle tutele, di univoche tendenze regressive, ecc. .
Queste disapprovazioni, come è avvenuto non poche volte nella nostra materia, sono state determinate anche, o forse soprattutto, dal dissenso nei confronti del disegno politico del quale quei provvedimenti legislativi, e soprattutto quello del 2015, hanno rappresentato una delle più significative attuazioni . Disegno politico tramontato con la sconfitta del sì al Referendum e con la vittoria elettorale dei partiti populisti-sovranisti nel 2018.
E così, dapprima una parte della dottrina e della giurisprudenza, poi i Governi succedutisi e soprattutto la Corte costituzionale, hanno frapposto forti resistenze culturali e inaugurato una stagione di controtendenze .
Infatti, Lega e Cinque Stelle iniziavano la loro inedita alleanza scegliendo di intervenire proprio sul diritto del lavoro come uno dei primi provvedimenti per evidenziare la svolta politica, tant’è che già dal titolo del decreto, che evoca la dignità del lavoratore unitamente alla dignità delle imprese, facevano subito capire quale sarebbe stato l’uso del testo normativo anche con finalità di propaganda. Veniva così apportata l’ennesima riforma al contratto a termine, che riportava indietro la tecnica delle causali di oltre cinquant’anni, non trovando di meglio che riesumare, senza neppure uno sforzo di adattamento, la vecchia giustificazione delle punte di attività non programmabili, che tanti danni aveva causato, perché, anche se la punta di attività è programmabile, la maggiore esigenza di personale resta comunque temporanea e quindi non si può costringere l’azienda ad avere un organico sovradimensionato con i lavoratori sottoutilizzati nei periodi in cui la produzione ritorna a livelli di normalità .
Inoltre, sempre nel suddetto decreto, veniva elevata la misura minima e massima dell’indennità per il licenziamento ingiustificato prevista dagli art. 3, comma 1, D.L.vo n. 23/2015, portandola da quattro a sei la minima e da ventiquattro a trentasei la massima; significativamente, però, neppure la volontà parlamentare del nuovo corso populista riformista riteneva di modificare il criterio di determinazione dell’indennità basato solo sull’anzianità, che invece di lì a pochi mesi la Consulta avrebbe abolito.
In questi ultimi anni, la controtendenza rispetto alla precedente regressione delle tutele è proseguita con una serie di provvedimenti; qui se ne ricordano alcuni, che non sono andati esenti neppure loro dalla connotazione alluvionale e da “lacune di collisione” .
A) La modifica dell’art. 2, D.L.vo n. 81/2015, mediante la legge 2 novembre 2019, n. 128, sulle collaborazioni eterorganizzate che, per la prima volta dal 1942, ha tentato di ampliare l’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato oltre i confini dell’art. 2094 c.c. mediante la sostituzione della dicitura “prestazioni esclusivamente personali” con quella “prevalentemente personali”, aumentando il già notevole caos sistematico; è stato anche soppresso il riferimento più restrittivo all’eterorganizzazione “anche dei tempi e del luogo di lavoro”. Ancora è incerto, però, a livello di contenzioso, se invece non continui a rimanere più favorevole, per chi vuole conquistare la disciplina protettiva della subordinazione per via giudiziaria, invocare, piuttosto che l’art. 2, la giurisprudenza sulla subordinazione attenuta, che si accontenta di qualche indice secondario, forse più agevole da provare rispetto al requisito dell’organizzazione delle “modalità di esecuzione” della prestazione, ovviamente se interpretato con un minimo di fedeltà al significato delle parole della legge.
B Caso unico in Europa e non solo, si è imposto il divieto di licenziamenti individuali per motivo oggettivo e collettivi, per la durata di oltre quindici mesi, ben oltre la fase del lockdown, anche quando tutte le aziende avevano ripreso normalmente la loro attività, esteso indistintamente a tutte le ipotesi di giustificato motivo oggettivo, anche a quelle che nulla avevano a che fare con l’emergenza Covid. La perplessità, anche di ordine costituzionale, sulla peculiarità di questo blocco indiscriminato, è stata vista nell’essere una misura eccedente le finalità di tutela del reddito del lavoratore durante la pandemia, conseguibile ugualmente, con i medesimi costi per la spesa pubblica, mediante misure alternative quali l’estensione degli ammortizzatori, invece di comprimere, per così lungo tempo, il diritto del datore di lavoro privato – che deve competere sul mercato globale con imprese che non hanno questi vincoli – alla determinazione del livello del proprio organico; il che ha fatto sorgere sospetti che sia prevalsa sulla razionalità giuridica la logica della visibilità politica. Per l’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 41 Cost. di analoghe limitazioni all’attività economica privata, si è espressa di recente la Corte costituzionale, con sentenza del 9 maggio 2022, n. 113 rel. Amoroso, a proposito di una legge regionale che imponeva alla Case di cura private accreditate di impiegare solo lavoratori con rapporto di lavoro subordinato per il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona, ritenuta una “penetrante limitazione del potere organizzativo” dell’imprenditore, incompatibile con la norma costituzionale, non giustificata neanche con il fine sociale della tutela della salute.
C) Il provvedimento, previsto dalla legge di bilancio 30 dicembre 2021, n. 234, ai commi 224-238, pubblicizzato a livello mediatico come misura contro le delocalizzazioni, che prevede alcune ipotesi di nullità del licenziamento, anche se giustificato da esuberi reali, per violazioni della procedura ivi prevista. Con tale disciplina si impone, infatti, alle aziende con almeno 250 dipendenti, che intendano chiudere una sede, reparto o filiale in Italia, licenziando non meno di 50 dipendenti, un obbligo di comunicazione al Ministero, all’ANPAL, alle Regioni e alle organizzazioni sindacali, almeno 90 giorni prima dell’inizio della procedura collettiva, che, a sua volta, può durare altri 80 giorni, per un totale di più di 170 giorni in cui viene anche qui bloccato il potere di licenziamento. Per l’omissione della comunicazione iniziale è prevista la radicale nullità del licenziamento a prescindere dalla sua sostanziale giustificazione, con conseguente ordine di reintegrazione per decine e decine di lavoratori in uno stabilimento, che però potrebbe essere definitivamente chiuso, in quanto uno dei presupposti per l’applicazione della procedura è che il motivo del licenziamento consista proprio nella chiusura del sito produttivo. La normativa prevede una procedura farraginosa piena di problemi interpretativi che lasciano ampi margini di ambiguità e di incertezze.
7. segue: b) La controriforma della Corte costituzionale
Nel periodo che va dal 2018 ad oggi si è avuta soprattutto la controriforma ad opera della Corte costituzionale, attuata con il suo quadruplice per ora intervento demolitore di alcuni dei nuovi regimi di tutela , e con una sentenza “monito” a proposito del regime di tutela per le piccole imprese .
La suddetta azione riformatrice era stata apertamente invocata da chi intendeva contrastare quelle che venivano considerate le tendenze neoliberiste del Jobs Act e per invertire così la loro temuta profonda portata destrutturatrice; di qui appelli vari alla giurisprudenza affinché facesse argine a scelte ritenute di sostanziale tradimento del progetto costituzionale.
Ed infatti la Consulta non è rimasta sorda al grido di dolore che si levava da una parte della dottrina. Come acutamente è stato notato “il vero e più importate connotato d